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Campania Stories 2019 #1 | La sintesi

2019-03-29 09.39.32

Cliccate subito da un’altra parte se siete alla ricerca di: scoop straordinari, notizie sconvolgenti e novità fantasmagoriche. Perché l’edizione 2019 di Campania Stories sostanzialmente rafforza le tendenze evidenziate negli ultimi anni (link, link, link e link).

Il quadro generale. Anche facendo la tara agli assenti, non c’è di che lamentarsi per il livello medio degli assaggi. Al di là delle singole valutazioni, la maggior parte dei vini regionali si gioca la chance di intercettare almeno una tipologia di pubblico potenzialmente in grado di apprezzarli. La molteplicità di interpretazioni e stili si rivela da questo punto di vista senz’altro elemento virtuoso: c’è spazio per tutti.
Se il livello complessivo si innalza e al contempo si assesta stagione dopo stagione, tuttavia, continua ad essere un po’ sguarnita la fascia degli “imperdibili”. Ovvero quelli da reperire ad ogni costo, nel vero senso della parola. Capaci insomma di rivaleggiare con le migliori bottiglie mondiali e bypassare qualunque ragionamento sul prezzo di acquisto.
E’ un aspetto che probabilmente non si sottolinea abbastanza: molta della Campania oggi à la page, nelle scelte dei media e degli operatori specializzati, così come negli scambi tra appassionati, è senz’altro agevolata da listini più che accessibili. Il che è un bene, naturalmente. Ma non possiamo però fare a meno di chiederci se la percezione delle etichette trasversalmente consigliate sarebbe la stessa a fronte di tariffe a tre cifre o giù di lì.

Annate e territori. Sappiamo tutti quanto sia complicato tirare fuori sintesi lineari quando c’è di mezzo la Campania enoica con la sua vertiginosa variabilità di varietà, territori, climi, eccetera, ma alcuni segnali “macro” emergono con nitidezza. L’ulteriore crescita dell’universo Falanghina, ad esempio: tra Sannio e Campi Flegrei aumentano ogni anno le opzioni centrate e personali, complice anche la vendemmia 2018.
Sembra in generale un’annata favorevole per i bianchi regionali: probabilmente non a livello della 2016, che si conferma tra le migliori del nuovo millennio anche con i “ritardatari”, ma sicuramente sopra la 2017 per agilità e tensione. Per Fiano di Avellino e Greco di Tufo, in ogni caso, è troppo presto per trarre conclusioni sensate.

Ricambio incompiuto. Come si diceva in precedenza, nel gioco degli stili c’è modo di trovare una collocazione e una ragion d’uso quasi a qualunque tipo di interpretazione. A volte però si avverte fin troppo netto lo stacco tra i “contemporanei” (freschezza, nerbo, sapidità, facilità di beva) e i “moderni”. Cioè etichette ed aziende che hanno dominato la scena critica e commerciale tra anni ’90 e ’00, conservando fama e prestigio anche nella fase a seguire. Nella maggior parte dei casi non hanno cambiato impostazione, anzi, sono vini che conservano grande continuità espressiva. L’effetto però è un po’ quello dei jeans a zampa di elefante e le implicazioni non sono da sottovalutare, nel momento in cui i nuovi protagonisti non sono ancora riusciti ad affiancarsi ai grandi totem quanto a notorietà e blasone internazionali.

L’Aglianico è anche un vino. Corto circuiti evidenti soprattutto sui rossi da aglianico, non fosse altro per l’ampiezza del campione statistico (anche quest’anno circa 70 su 120 totali della giornata dedicata ai rossi). Rispetto a qualche stagione fa sono notevolmente aumentate le letture che ne esplorano una dimensione diversa da quella di “peso massimo”, ma i tentativi di proporre vini meno maturi, alcolici ed estratti approdano in diversi casi ad espressioni un po’ troppo crude ed insipide. Instillando a più riprese il dubbio che le caratteristiche genetiche del vitigno permettano di giocare la partita della leggerezza solo in presenza di condizioni molto particolari. Restano infatti largamente maggioritarie le interpretazioni ruvide e materiche, faticose da approcciare e abbinare. Non un interrogativo da poco, considerando quanto aglianico viene coltivato e prodotto oggi in Campania.

Infine, come di consuetudine, qualche rapido nome che vien voglia di seguire nei prossimi mesi dopo i primi assaggi a caldo.

“I” vini dell’edizione 2019. Anche quest’anno non c’è la singola bottiglia che si prende per acclamazione la fascia di “più bella”. Ne scelgo allora quattro che lasciano il segno per motivi diversi: Falanghina Preta ‘18 Alexia Capolino Perlingieri, Fiano di Avellino Tognano ‘16 di Rocca del Principe, Campi Flegrei Piedirosso ’17 Agnanum-Moccia e Taurasi ‘13 Contrade di Taurasi.

La cantina. A dieci anni dal debutto, quello che assomigliava per molti versi a un gioco si è trasformato in un progetto aziendale completo, con una vera e propria piccola gamma senza punti deboli: il Polveri della Scarrupata Bianco ’17 e il Sabbie di Sopra il Bosco R ‘12 fanno ancora più interessante la storia di Nanni Copè alias Giovanni Ascione.

La rivelazione. Non certo in riferimento alla lunga attività alle spalle, ma per la riconoscibilità stilistica che si manifesta sempre più anche a fronte di una vendemmia a dir poco complicata come la 2014: Villa Dora e le sue letture elegantemente infiltranti del terroir vesuviano (Vigna del Vulcano Bianco e Gelsonero Rosso).

La conferma. Ce ne sono diverse, di realtà relativamente giovani che sembrano mantenere le aspettative innescate dalle prime felici uscite. Due su tutte: Aia delle Monache con Pallagrello (Bianco e Nero) e Casavecchia, Stefania Barbot con i propri Aglianico e Taurasi da Paternopoli (Alta Valle del Calore).

La sorpresa. Anche in questo caso da non intendersi in senso stretto: piacevolmente spiazzati dallo Strione ’13, la falanghina “jazz” di Cantine Astroni. Mi piace pensarla come un’interpretazione sempre più vicina all’idea che Gerardo Vernazzaro ed Emanuela Russo avevano in testa quando hanno iniziato a lavorarci su.

Il ritorno. Confesso di aver trovato nelle ultime versioni del Greco di Tufo Vigna Cicogna di Gabriella Ferrara un minus di carattere e forza sapida rispetto al solito. La versione ’17 sembra invece esprimersi su registri più familiari e mi sembra un’ottima notizia per tutto il distretto, già penalizzato da una serie di vendemmia a dir poco complicate.

Ideali per la mescita. Tra i vini che appaiono particolarmente disponibili in questa fase e che vale forse la pena di prendere in considerazione per le prime mescite primaverili: Fiano Cumalè ’18 Casebianche, Falanghina del Sannio Sant’Agata dei Goti Vigna Segreta ’17 Mustilli, Gragnano della Penisola Sorrentina Ottouve ’18 Martusciello, Pompeii Rosso ’18 Bosco de’ Medici, Aglianico Phos ’17 I Cacciagalli, Costa d’Amalfi Rosso Ragis ’15 Le Vigne di Raito.

 

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