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Menu fisso

Copertina

La pandemia ha solo accelerato e moltiplicato una tendenza in atto da tempo: il menu fisso obbligato nella ristorazione fine dining.

Funziona più o meno così. Chiami per prenotare e, insieme a giorno, ora, numero di persone e contatto telefonico, ti viene chiesto se tu e i tuoi commensali avete intolleranze alimentari o se ci sono cibi che proprio non gradite, perché ad attendervi non c’è la classica carta delle vivande, bensì uno o più percorsi di degustazione in X portate.

Ammesso che tu già conosca allergie e preferenze dei compagni di tavola, il colloquio procede con diverse modalità, a seconda della formula adottata dal locale. Probabile tu voglia sapere, ad esempio, come sono composti i menu prefissati: in alcuni casi te li raccontano a voce o vieni indirizzato ad una pagina web, in altri ti spiegano che sarà un percorso a sorpresa legato alle disponibilità del giorno e alla fantasia dello/a chef.

Finora ho sempre confermato la prenotazione, pur essendo stato più volte tentato di declinare. Naturalmente non mi sfuggono le validissime ragioni alla base del format, sempre più adottato in questa interminabile finestra, complici le continue incertezze legate al COVID. Riduzione degli sprechi e degli sfridi, ottimizzazione delle risorse materiali ed umane (anche alla luce delle difficoltà nel reperimento di personale qualificato), controllo del food cost, miglioramento della qualità e dei tempi di servizio: non serve un genio per comprendere quali e quanti vantaggi possa apportare un modello economico ed organizzativo di questo tipo.

Ho tuttavia l’impressione che ci sia soprattutto altro, solo in parte legato alle necessità finanziarie di chi porta avanti un’impresa ricettiva in periodi così complicati. Qualcosa che segnala una transizione forse irreversibile (e per quanto mi riguarda preoccupante) nel rapporto ristoratore-cliente e nell’idea stessa della fruizione gastronomica “premium”.

Cenare in un posto con sequenza di piatti predeterminata, prendere o lasciare, non è così diverso dall’andare a teatro o a un concerto. Similitudini che in certi casi si palesano fin dalle modalità di prenotazione: call center aperti un’ora a settimana, liste d’attese chilometriche, fattore fortuna tipo caccia all’ultimo biglietto su TicketOne. Esiste un pubblico, di norma alto-spendente, che vuole esattamente questo e decide di passare una serata al ristorante proprio come sceglierebbe uno spettacolo, soltanto con il/la grande chef ad esibirsi al posto dell’attore o del musicista. E quindi win-win: ti metti comodo e ti godi le sue creazioni, senza bisogno di negoziare granché. Del resto mica vai da David Gilmour per concordare la scaletta, altrimenti te ne torni a casa.

Esiste però anche un’altra fetta di clientela molto meno propensa a vivere l’esperienza fine dining come performance, ed è lì che a mio avviso si manifestano alcuni corto circuiti in buona misura sottovalutati, ignorati, se non apertamente rimossi. Da una parte il legittimo bisogno di cuochi, brigate e patron di esprimersi in piena libertà, modulando le proprie proposte anche in base a coperti, flussi di dispensa, approvvigionamenti quotidiani. Dall’altra il sacrosanto desiderio di chi si siede a tavola e vorrebbe avere almeno un po’ voce in capitolo, senza sentirsi per questo fuori luogo, inesperto, “sbagliato”.

Si tratta naturalmente di un confine molto sottile, dove le ambizioni professionali e narcisistiche di chi cucina si scontrano frequentemente con le resistenze di una larga fetta di avventori sostanzialmente reazionari, pigri, poco disposti ad uscire dalla propria zona di comfort. Resto comunque convinto che l’unica strada premiante nel lungo periodo sia quella orientata alla ricerca di un punto d’incontro, prima di tutto emotivo. Guardare il cliente come un mero spettatore significa rinunciare ad ogni tentativo di fidelizzazione; il che va bene se ti chiami Ferran Adrià, René Redzepi o Massimo Bottura, un po’ meno se cerchi di portare avanti una locanda sull’Appennino. Allo stesso modo vale forse la pena di chiedersi se sia per forza compromesso al ribasso offrire almeno un’alternativa al cliente, specie se è la sua prima visita e il tuo percorso degustazione è incentrato su sapori decisi e perfino “estremi” (parlo per esperienza diretta). Non si pretende di tenere a portata di mano lo spaghetto al pomodoro, né di tornare ai menu enciclopedici con 50 piatti, ma una piccola carta del giorno con due antipasti, due primi, due secondi e due dolci dovrebbe configurarsi come una soluzione pienamente sostenibile. A meno che non sia una deliberata scelta quella di accogliere soltanto avventori preparati che già ti conoscono bene e sanno esattamente cosa aspettarsi da cucina, servizio, abbinamenti, eccetera.

C’è infine da considerare quello che a me sembra il vero elefante nella stanza. Nonostante la crescente attenzione al tema della sala, il focus comunicativo resta ancora tutto spostato su materie prime, ricette, filosofie, ispirazioni e manipolazioni culinarie. Rischiando di dimenticare la più banale delle evidenze: dall’anonima osteria di paese al più famoso dei tristellati, non si va al ristorante soltanto per mangiare. Siamo in tanti a scegliere un posto rispetto ad un altro anche per la capacità di coccolarci e farci sentire che qualcuno tiene a noi per un paio d’ore. Approccio che mal si concilia, direi, con lo schema “stasera c’è questo – zitto e mosca”, come fosse il menu turistico a San Marino o la mensa scolastica che ho conosciuto da bambino.

Non credo di essere l’unico a non avere sempre voglia di una lunga degustazione, quando mi concedo un’uscita. Sono portato a tornare più volte in quei locali dove posso alternare le formule, senza sentirmi strano se chiedo un paio di piatti per accompagnare una bella bottiglia. A meno che non ci sia già stato 800 volte, ovvio che non vada da Uliassi per ordinare la pasta in bianco e scappare via, ma in generale non dovrebbe destabilizzare né creare ansie finanziarie il cliente con tempi e appetiti limitati. Personalmente ho sempre speso almeno quanto il degustazione (se non di più) scegliendo alla carta e di sicuro non mancano formule per determinare una spesa minima quando viene prenotato un tavolo in certe tipologie di locali, specialmente in giorni e orari particolarmente richiesti.

Fermo restando che ognuno a casa propria è padrone di fare come vuole, il punto è proprio questo: un posto che mi costringe a mendicare deroghe come piacere personale, per me diventa più circolo che ristorante. Allora, cari/e chef e patron, vi chiedo se è davvero questo che vi immaginate per il vostro presente e futuro professionale. Eppure anche voi, ne sono sicuro, quando uscite a cena anelate un approdo dove rilassarvi e sentirvi a vostro agio, dopo giornate o settimane passate a discutere, litigare, contrattare.

Non obblighiamoci a farlo anche a tavola. In fin dei conti, come ci insegna la filosofia di Matrix, la chiave di tutto è la scelta: non ce ne servono mille, ce ne bastano un paio, anche solo per sintonizzarci, ascoltarci e riconoscerci reciprocamente nelle infinite connessioni che gravitano attorno a un piatto.

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