C’è una nuova tappa temporale nel viaggio della grenache in Italia ma soprattutto un vino che mostra un futuro possibile per il Trasimeno.
L’abbiamo scritto più volte anche qui, affascinati da una varietà che distilla nel bicchiere i caratteri del Mediterraneo declinandoli su svariati fronti, ma vale riprendere il filo del discorso. L’Italian tour della grenache passa per i colli intorno al Trasimeno, in Umbria, anche se il nome che gli è stato affibbiato trae in inganno: Gamay. Persino il grande Veronelli cadde nell’equivoco. Parlando del vino di un certo Miscio Solismo, vignaiolo di Castiglione del Lago, località Gioiella, scrive, a proposito dell’annata 1997, che è lo stesso “gamay che dà l’uva rossa per il Beaujolais, dell’omonima regione francese”.
Errore comprensibile, ai tempi, e nome che non aiuta a comunicare una varietà e un vino tradizionale, oggi. Ma così è e tanto vale guardare avanti, magari cercando di capire che è successo. Molti riconducono la coltivazione della grenache alla dominazione spagnola del ‘600, seguita alla pace di Cateau-Cambrésis. La Duchessa Eleonora Mendozza, sposando Fulvio Alessandro della Corgna, l’ultimo signore di Castiglione del Lago, sembra abbia portato in dote le viti dalla Spagna. Un po’ come fecero i pastori sardi tra fine ‘800 e primi del ‘900 (cannonau = grenache), stabilendosi in gran numero al Trasimeno dopo essere transitati per la Maremma.
Un ginepraio da cui i vignaioli del lago degli ultimi vent’anni sembravano volersi tenere alla larga, salvo ricredersi per la necessità di ancorare i propri vini a una qualche varietà locale. Se l’azionista di maggioranza è la cooperativa Duca della Corgna, da anni sul pezzo e alle prese con nuovi e ambiziosi esperimenti, l’asticella è stata alzata da una piccola realtà artigiana di nome Madrevite.
Vigne e cantina in zona di confine, a Cimbano, dove lago di Chiusi, Montepulciano, Val di Chiana, Cortona e Trasimeno sono a portata di sguardo. Il “Chiusi perugino”, come lo chiamano gli anziani, un tempo marca tra Papato e Granducato, dove si mangiano i pici, la nana e i sapori toscaneggiano.
Ma torniamo in vigna. Quella più in alto, a 340 metri sul livello del mare, è stata piantata nel ’78 e ospita diverse varietà, alla maniera di una volta. Tra queste il gamay – grenache, ovviamente, che oggi occupa 2 ettari. La cantina è minuscola ma curatissima; Nicola Chiucchiurlotto la presidia, spiegandone evoluzione e traguardi. Col Gamay C’Osa si fa così. L’etichetta simbolo dell’azienda prevede una vinificazione spontanea con un 20 – 30% di grappoli interi, a seconda dell’annata, e 6–10 giorni di macerazione sulle bucce. Quindi cemento, botte grande e bottiglia.
Nicola sostiene che i raspi diano vitalità ai vini. Sembra aver ragione, tanto che l’ultima annata fa segnare un notevole balzo in avanti. C’Osa 2019 è magnifico per originalità e grazia. Diverso dalle versioni precedenti, sul piano aromatico rinuncia a qualcosa in termini di frutto per guadagnare sfumature di sottobosco e corteccia, bacche e radici. Squillante, balsamico e con una specie di vena elettrica, ha silhouette sinuosa, saporitissima, con cenno di carruba e finale di menta essiccata.
Lontano da molte Grenache assaggiate, specie da quelle più aperte, carnose e aromatiche, sembra indicare una via assai intrigante per il territorio lacustre. Del resto, questo è un Gamay del Trasimeno o, meglio ancora, un Trasimeno Gamay.