
La Sardegna del vino sembra una miniera d’oro di varietà e territori che aspettano solo di essere scoperti. Vero, ma è comunque curioso che due zone spettacolari e in rampa di lancio si trovino a una cinquantina di chilometri l’una dall’altra.
Della prima, Mamoiada, stanno parlando ormai un po’ tutti, anche grazie al lavoro dell’associazione (anche se ora sono due) che raduna alcuni dei vignaioli più interessanti della zona. Una terra di clamorosa energia che merita di essere visitata, vino o non vino, capace di scolpire alcuni dei Cannonau più rappresentativi e originali dell’Isola. L’altra è ancora poco nota ma altrettanto affascinante; potrebbe essere questa “la prossima grande cosa” del vino sardo e italiano. Se siete curiosi, stiamo parlando della zona intorno al piccolo borgo di Neoneli, spettacolare dal punto di vista naturalistico quanto magnetica e ancestrale sotto quello viticolo.
Essendo così vicine, i paragoni vengono spontanei. In entrambi i casi si tratta di una viticoltura antica che mostra ancora oggi i segni del passato, dai palmenti alle vecchie piante ad alberello che puntellano i terreni in maniera apparentemente casuale. Paesaggi per certi versi simili a quelli del Languedoc o del selvaggio Roussillon, giusto per buttar lì una suggestione e aiutare l’immaginazione. I suoli hanno una sostanziale continuità e sono caratterizzati dal disfacimento della roccia granitica (almeno per quanto riguarda la parte sud di Neoneli, dove ormai si concentra il grosso delle vigne). Il clima è tipicamente mediterraneo, ventoso, e le escursioni termiche non mancano di certo, anche se le vigne di Mamoiada sono più in alto.
La differenza macroscopica, però, è rappresentata dalle uve coltivate. Se Mamoiada è il regno quasi incontrastato del cannonau (almeno per i rossi), Neoneli ha una palette ricchissima, complicata da sintetizzare, con molteplici varietà. Mischioni in cui non è facile districarsi che i francesi chiamerebbero complantation, rendendo d’incanto tutto molto figo. Viti che dividono il paesaggio con alberi rigogliosi, tra i quali dominano le splendide querce da sughero. Così importanti da far pensare a un progetto che porterà a tappi da piante di Neoneli al 100%. Fantastico.
La cosa più incredibile è che la conformazione dei terreni e i metodi di allevamento delle viti più vecchie rendono impossibile qualsiasi tipo di meccanizzazione. L’unica soluzione è usare i buoi o al limite i cavalli. In zona c’è un servizio specializzato a cui i vignaioli si rivolgono. No, non è per niente marketing.
Con i tre soci della Cantina di Neoneli, visitiamo la vallata di Canales. Un posto di inebriante bellezza che comprende oltre cento minuscole vigne ad alberello, gestite da gente del posto per il fabbisogno familiare. Pazzesco come siano curate, tanto da sembrare giardini antichi che primeggiano l’uno sull’altro. <<Qui la vigna è un vanto e nessuno ci tiene a sfigurare>>, ci dicono.
L’altitudine della valle varia da un minimo di 450 a un massimo di 550 metri ed è la quintessenza della viticoltura locale, con almeno 10 varietà diverse coltivate in maniera promiscua. C’è di tutto: cannonau, monica, muristellu, pascale, cagnulari, carignano, nieddumannu, nieddusaludu, cinsault, nuragus, vermentino, moscato e anche uva da tavola. Per il Canales, vino simbolo dell’azienda, le uve nere vengono vinificate tutte assieme, come tradizione comanda.
<<La nostra idea è anzitutto salvare l’identità e le tradizioni di Neoneli – continuano i tre soci della cantina: Marco, Samuel e Salvatore -. Non è solo un fatto di resistenza, di perseveranza: è vera cocciutaggine e voglia di andare oltre la ragione. Un debito verso chi ha saputo mantenere per secoli la qualità di queste vigne. Roba che non si misura col danaro o col sudore. Un patrimonio difficile da vivere, ma impossibile da lasciare>>.
Dicevamo di quanto ancestrale, frastagliata e privata sia qui la viticoltura. Le uniche cantine “moderne” (per ora) sono quella di Neoneli e Bentu Luna, progetto dei Moratti (si, quei Moratti) che si sono inseriti in maniera rispettosa in questo ambiente strabiliante. Così tanto da essere a loro volta rispettati e stimati. Un lavoro certosino e poco interventista, dalla custodia delle vecchie vigne ai metodi di vinificazione, condotto dal pragmatismo visionario di Gian Matteo Baldi. Diverse le etichette già prodotte ma quella più legata alla tradizione della zona (il mischione, per intenderci) si chiama Sobi e proviene da vigne che hanno dai 35 ai 70 anni, tutte allevate ad alberello.
Senza dover per forza avventurarsi in minuzie descrittive, né volendo paragonare i vini di una cantina a quelli dell’altra, cerchiamo di dare qualche riferimento su cosa aspettarsi. La sensazione, restando in regione, è quella di avere a che fare con rossi dal tratto più lieve, per certi versi primario, che lasciano qualcosina in termini di intensità e struttura per guadagnare in armonia, delicatezza espressiva ed eleganza. Meno frutta matura, rose e dolcezze aromatiche, specie rispetto a certi Cannonau, e abbracci alcolici più lievi. Le trame appaiono sempre molto fini ma le dinamiche verticali e le fresche venature acide non privano i vini della loro impronta mediterranea, con tutta la letteratura del caso.
Nonostante una storia lunghissima, la sensazione è che a Neoneli una nuova era sia appena iniziata. Bello essere arrivati qui proprio ora.