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Dove sta Zaza (e l'Aglianico)?

E così i tifosi italiani, quei pochi che ancora seguono la nazionale di calcio con sincero trasporto, hanno scelto il loro nuovo beniamino. Fino alla prima partita senza vittoria e senza gol, si intende. Perché anche i “campioni” sono a tempo determinato nell’era dello sport moderno. Che mastica, inghiotte e sputa nella durata di un click sul decoder chi non sa trasformarsi immediatamente in un robot da playstation o riconvertirsi in personaggio da copertina, a fronte di un talento (o un cervello) limitato.

E’ arrivata come il classico cacio sui maccheroni, insomma, l’esplosione – o meglio il suo trailer – del nuovo centravanti ideale da dare in pasto a titolatori stagisti da 5 euro a pezzo, commentatori e social network. Il bravo ragazzo senza troppi grilli per la testa (mica come Balotelli), la punta di movimento che lotta e gioca con la squadra (mica come Balotelli), il giovane affamato di vittorie, che gioisce e si emoziona per un gol (mica come Balotelli).

Già, perché il totem, seppur precario, si erige più in fretta se c’è un dualismo da cavalcare. E Simone Zaza è l’alter ego perfetto da contrapporre, fino al primo inciampo, al Supermario più discusso della storia dei Supermario (perché se ti chiami Mario, fai sport a livello agonistico e sei bravino devi per forza beccarti – pare sia legge dello stato – il soprannome mutuato dall’idraulico italiano baffuto con la salopette blu reso universalmente celebre dall’omonimo videogioco Nintendo *). Del resto un figlio di immigrati non meriterà mica cittadinanza e diritti civili per il semplice fatto di essere nato in Italia, no? Figurarsi poi se ha la pelle nera e sembra dotato di mononeurone…

Perché non è certo una sparuta minoranza a pensarla così, ed è quella cosiddetta “pancia del paese” che va assecondata, secondo i mezzi di distrazione di massa. E allora ben venga la favola fresca da esaltare in concomitanza con la parabola in apparenza discendente di Balotelli. Perché la folla urlante vuole il suo premio, ha bisogno di qualcuno che faccia da megafono, che lo dica chiaramente, quasi fosse la vera priorità nazionale, che quello là, quel grande bip testa di bip, non se la merita la Ferrari, Fanny, le vacanze ai Caraibi, e mille altre cose. Non realizzando minimamente che quelle macchine, quelle fidanzate, quei contratti sono generati proprio dall’ossessione di chi lo detesta, come persona più che come atleta sopravvalutato, di chi patologicamente crede che la propria vita sarebbe migliore se il numero 45 con la cresta stesse su un barcone di ritorno verso il Ghana anziché ad Anfiel Road. Paradossalmente ma non troppo, più Balotelli litiga, sviene al primo tackle, gioca male, fa fesserie, si rende ridicolo, più aumentano i minuti a lui dedicati nei tg e i click sui giornali online, più il suo conto in banca cresce. E crescerà anche questa volta che gli si può schierare contro una bella figurina fatta in casa e non ancora sgualcita.

Oddio, credo che a casa Borghezio e Salvini si siano vissuti momenti difficili e sudori freddi anche questa volta. Qui gatta ci cova, avranno sicuramente pensato (sic!), facendo mente locale (risic!) su quel nome non certo consueto (avesse avuto almeno l’accento sulla a, così la battuta veniva meglio e gli eredi di Gabriella Ferri gioivano per ogni “dove sta Zazà” *). E poi quell’inflessione strana, proprio strana, ma soprattutto quella carnagione scura, quegli occhi neri e il suo sapor mediorientale, quella barba da jihadista: vuoi vedere che ci dobbiamo beccare come centravanti un altro mezzo italiano, una specie di magrebino sotto copertura da mandare al più presto sulle spiagge a vendere fazzoletti? Sono sicuro che, se lo avessero avuto a portata di mano, quei due gli avrebbero fatto fare la prova della cadrega di Tre Uomini e una Gamba…

Non è andata bene comunque al cento per cento, ai nostri illustri pensatori. Perché il buon Simone è sì italiano originale certificato, per dirla come la direbbero loro, ma l’è in ogni caso un terùn. Già, la favola funziona ancora meglio se il nuovo “eroe” è un ragazzo del sud, e non di un meridione qualunque. Grazie a Zaza qualche decina di milioni di tifosi si è improvvisamente ricordata dell’esistenza della Basilicata. Una terra semplicemente meravigliosa, che in un mondo normale vivrebbe come il Cilento soltanto delle sue bellezze di ogni tipo, ed è invece una delle zone meno conosciute e più povere dello stivale. Simone Zaza è nato e cresciuto tra Policoro e Metaponto, ex colonia greca sulla costa jonica, ed è forse il lucano oggi più famoso insieme all’attore-regista Rocco Papaleo. La sua storia si presta perfettamente ad alimentare la retorica ormai dominante, nelle questioni sportive e non solo.

L’attaccante del Sassuolo ha solo un anno in meno rispetto a Balotelli, ma la generazione è l’unica cosa che li accomuna. A differenza di Supermario (aridaje!), Simone non è un predestinato, non ha segnato un golaço a Torino contro la Juve al suo esordio a meno di 18 anni, non ha vinto una Champions League a 20 e non ha già avuto contratti milionari con quattro squadre di primissima fascia come Inter, Manchester City, Milan e Liverpool. Zaza ha fatto tanta gavetta tra serie B e Lega Pro, è rimasto senza contratto dopo solo tre partite di A, ha perfino pensato di tornare a casa e rinunciare a palcoscenici di primo piano. Ha faticato tanto, insomma, per essere dove è oggi e dove gli auguro di essere da qui a dieci anni grazie a numeri e risultati significativi anziché come azionista di maggioranza delle news di Studio Aperto. E non si può non fare il tifo per lui, al di là delle pregevoli doti fisiche e tecniche, che lo rendono potenzialmente uno di quegli attaccanti che conquistano le folle, a prescindere dalla provenienza e dalla nazionalità.

Non tutti i cliché sono forzati e, mentre leggo le sue interviste di questi giorni, non posso fare a meno di pensare che nella vicenda di Simone Zaza ci siano tanti punti di contatto con quelle di un altro grande protagonista della sua regione. Ci vorrebbe il coraggio o la fortuna di un Antonio Conte, mi dico, capace di riportare alla ribalta un vero e proprio patrimonio del nostro paese come l’Aglianico. Dal mio punto di vista, il petrolio che andava cercato in Basilicata non è certo quello che da anni si estrae in Val d’Agri, con risultati tutt’altro che brillanti in termini di ricaduta sul territorio. Il giacimento più prezioso è quello che vive attorno al vulcano spento del Vulture, uno dei più incredibili terroir mondiali, con potenzialità almeno pari alle fatiche operative e commerciali che devono affrontare i suoi tanti bravi vignaioli.

Ma non è sempre stato così e molte difficoltà di oggi sembrano scaturire proprio da una sorta di “epoca d’oro”, che c’è stata ma si è rivelata in buona parte illusoria alla distanza. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei duemila l’Aglianico del Vulture spopolava in termini di attenzione da parte di stampa ed operatori: se ne parlava come la nuova “eldorado” del vino italiano, capace tra l’altro di richiamare investimenti rilevanti da grandi gruppi imprenditoriali di altre zone. Fioccavano premi dalle guide e superpunteggi sulle riviste internazionali, la stessa filiera ne risultò rivoluzionata: contrariamente a quanto accade di solito, lo zoccolo duro produttivo era rappresentato da etichette ambiziose, nello stile e nei prezzi, più che dai cosiddetti vini “base”. Erano gli anni in cui Robert Parker (e non solo lui) pronosticava un autentico crack mondiale per l’aglianico, the next big thing, e il Vulture appariva il distretto più abile ad intercettare e cavalcare quest’onda virtuosa. Anche grazie ad una denominazione che sottolineava con chiarezza ed immediatezza il legame tra il vitigno e il territorio, carte che altre zone consacrate alla varietà non potevano giocare, leggi Taurasi, Massico, Cilento, e così via.

Poi, quasi all’improvviso, l’oblio. La vitienologia vulturina non è mai stata tanto in salute da un punto di vista qualitativo, ma anche e soprattutto nella sua articolazione umana, territoriale ed espressiva. Eppure la Basilicata sembra quasi scomparsa oggi dalle rotte mediatiche e commerciali più battute: aziende anche molto interessanti lottano per la sopravvivenza, specialmente quelle di piccole dimensioni, diventa ancora più utopico di prima uno scenario dove i produttori riescano a cooperare, pensare progetti di sviluppo e comunicazione in maniera unitaria, trovare soluzioni di interesse collettivo.

Servirebbe come il pane, prima che sia troppo tardi, una nuova svolta radicale, un leader forte ed autorevole attorno al quale riconoscersi. Perché non lo sono certamente quelli indicati ad esempio dalle guide più diffuse e reputate, perlomeno all’estero. Perché chi conosce la zona ha la netta sensazione che in questo momento ci sia spazio in termini di promozione solo per pochi singoli marchi, quelli che hanno risorse da investire, più che per una vera comunicazione di terroir nel suo complesso. Ci vorrebbe un Simone Zaza, anzi, forse ci vorrebbe proprio lui. Per quanto possa sembrare assurdo ed ingiusto, probabilmente produrrebbe più spinta economica una sua intervista a Ilaria D’Amico del tipo “faccio gol perché bevo l’Aglianico della mia terra” che mille eventi, anteprime e road show. Fateci un pensiero, funzionari dell’agricoltura lucana: Simone è maschio, potente, di aspetto mediterraneo, schietto e diretto nelle dichiarazioni, “ruspante” quanto basta per conquistarsi più simpatizzanti che detrattori. Mettetegli addosso la maglia dell’Aglianico del Vulture Football Club e ridarete ossigeno, almeno nell’immediato, a tanti bravi quanto capoccioni produttori che non vogliono arrendersi alle schizofrenie del mercato moderno. Grifalco, Carbone, Musto Carmelitano, Basilisco, Michele Laluce, Eleano, Francesco Radino, Madonna delle Grazie, Ofanto-I Gelsi, Serre del Prete: non sono poche le opzioni che meriterebbero maggiore spazio e considerazione, accanto ai soliti nomi.

Facciamo che questa consulenza è gratuita, ma sulla prossima vi mando la fattura, va bene? Per par condicio, però, da buon irpino non posso esimermi dal fornire il mio fondamentale contributo agli aglianicisti della mia terra. Che non sono meno in difficoltà dei colleghi vulturini, purtroppo, per ragioni tutto sommato non molto diverse. E allora statemi a sentire, amici di Castelfranci e Mirabella, Montemarano e Venticano: prendete l’aereo, arrivate in Arizona e chiedete al proprietario delle Phoenix Mercury di fare quattro chiacchiere con Diana Taurasi. Sì, proprio così: il nome del nostro rosso più importante è portato in giro per il mondo da quella che è attualmente considerata la migliore giocatrice di basket dei cinque continenti. Qualche giornalista sportivo ne parla addirittura come la più forte di tutti i tempi, una sorta di Micheal Jordan in gonnella (si fa per dire), capace già di vincere sei volte la classifica marcatori e tre titoli in Wnba (l’Nba al femminile), svariati scudetti in squadre europee (perché lei gioca sia la stagione invernale che estiva, non fermandosi praticamente mai), senza contare le medaglie d’oro olimpiche e mondiali conquistate con la nazionale a stelle e strisce.

Classe 1982, nata in California da madre argentina e padre italiano (ex portiere di calcio di buon livello, tra l’altro), è alta 183 centimetri e gioca da guardia, nello stesso ruolo che fu di His Airness. Più volte nominata Mvp del campionato (l’ultima qualche giorno fa: link), è davvero Taurasi di nome e di fatto: atleta di classe e sostanza, dura, arcigna, grintosa, con un caratterino mica da ridere. Non è di certo il cigno che conquista al primo sguardo, ma si diventa suoi tifosi a poco a poco, ammirandone il temperamento, la sua capacità di venire fuori alla distanza, autentica regina dell’ultimo quarto, che diventa spesso incontenibile quando le altre calano, sollevata da troppi incastri tattici, finalmente senza briglie nel poter liberare il suo istinto da killer. Vi ricorda qualcosa? A me sì, parecchio. “My name is Taurasi”, sparato dritto in camera, con la faccia minacciosa il giusto e una bottiglia aperta tra le mani: quale migliore testimonial per raccontare in trenta secondi ai telespettatori yankee quell’indole che rende il nostro rosso magari non il numero uno al mondo ma sicuramente tra i più originali? Già me li vedo Luigi Tecce, Michele Perillo, i ragazzi de Il Cancelliere, Antico Castello e Amarano, i Boccella, gli Urciuolo, i Lonardo e tanti altri comparire in prime time sulla Cbs tra un time out e un altro accanto alla campionessa con la maglietta numero 3. E via libera a pancali e pancali di Taurasi coast to coast

Lasciatemi sognare in pace, per favore. Prima che qualcuno mi prenda troppo sul serio, quello che sto cercando di dire è che non si può più sprecare tempo o energie dietro questioni tanto vitali apparentemente nei confini di un paesino quanto insignificanti a livello macroeconomico. A furia di ripeterci che l’aglianico è un grande vino che non teme rivali, con potenzialità da top player, i territori di riferimento rischiano di fare la fine di Balotelli ma senza il suo flusso di cassa: promesse non mantenute, contrapposizioni fini a sé stesse, totale inefficacia all’interno di un lavoro di squadra. Tanti si lamentano ma pochi si prendono la briga di spiegare, con semplicità e chiarezza, che cos’è l’Aglianico a chi non è nato a Torrecuso, Sessa Aurunca, Taurasi o Barile. Gli approfondimenti tecnici sono importanti, la stampa di settore può dare il suo contributo, nessuno dice il contrario, ma sarebbe urgente un’idea sinergica e condivisa che parli al cuore e ai portafogli di chi il vino lo compra e lo beve senza voler sapere per forza tutto delle componenti piroclastiche nei suoli o del totale di polifenoli. Semplificare non è per forza banalizzare e l’Aglianico ha bisogno oggi più che mai di una comunicazione trasversale e creativa: umanizzarlo, con o senza testimonial, può essere un buon punto di partenza. Perché sono gli uomini e le donne, con i loro vissuti, i loro pregi e perfino i loro difetti, a creare le storie meritevoli di essere raccontate. E senza di quelle non ci sono punteggi, tender o broker che possano tenere in vita un distretto, seppur con un passato glorioso.

Crediti foto (in ordine di inserimento): ilsecoloxix.it, calcioefinanza.it, Enogea-Mauro Erro, azcentral.com

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