Territorio, territorio e ancora territorio. Da quanto ho cominciato a frequentarlo, il mondo del vino è cambiato moltissimo.
Ha guadagnato nuovi interpreti, nuovi schemi, nuove parole d’ordine, tra cui quella magica che nessuno si dimentica di evocare: territorio.
Già, ma che cos’è il territorio? O meglio, quando un vino può dirsi territoriale? La matassa non è così semplice da dipanare e i distinguo non mancano. Dando per scontata la declinazione alla francese (il mitico terroir) che mette insieme suolo, clima e uomo, bisogna riconoscere tanti livelli evolutivi e fasi storiche circostanziate, in una mappa che va letta e giudicata caso per caso.
La territorialità di un vino non è qualcosa di immobile né tantomeno un fungo che spunta da sé dopo una pioggia abbondante ma un percorso lungo e condiviso, capace di evolvere e di disegnare un quadro complesso. Adottare dei parametri standardizzati e adattare lo schema di qualcosa a qualcos’altro può essere fuorviante, oltre che profondamente sbagliato. Ad ognuno il suo e i suoi tempi perché la questione a Barolo è certamente diversa rispetto a Taurasi, a Montefalco o in Chianti Classico. In alcuni casi i percorsi sono tracciati da tempo e i confini definiti, in altri siamo solo all’inizio.
Anche in cucina e nella ristorazione valgono schemi simili e il territorio è uno degli ingredienti più usati degli ultimi tempi, almeno a parole; non tanto e non sempre nelle ricette quanto nei prodotti e nelle materie prime, con tanti chef creativi alle prese con le risorse del luogo in cui si trovano.
Ultimamente ho ragionato spesso su questi fenomeni, attuali nel mondo del vino e del cibo ma assai rilevanti anche in altri settori. Sono giunto alla conclusione che, più che di territorio, preferisco parlare di rappresentazione territoriale. Mi pare un termine meno dogmatico, con minori pretese assolutiste, gabbie o scatole eccessivamente oppressive.
La rappresentazione territoriale regala una visione più dinamica delle cose, almeno per come la vedo io, capace di pescare elementi storicamente e geograficamente condivisi senza l’assillo di dover ricalcare qualcosa in maniera ossessiva ma dando una lettura contemporanea e personale.
Un vino, per dire, può essere una rappresentazione territoriale fedele anche senza i vizi della tradizione estrema o gli errori del passato, perfettamente a suo agio nel presente. Un piatto o un ristorante può essere una perfetta rappresentazione territoriale quando restituisce, anche in maniera originale, l’idea collettivamente condivisa del luogo in cui si trova.
Il piatto di rane mangiato a La Grenouillère*, tra i corsi d’acqua de La Madelaine-sous-Montreuil, nel nord della Francia, la rivalutazione della pecora di Roberto Petza* a Siddi o di Salvatore Tassa* sulle Colline Ciociare, il bollito non bollito di Massimo Bottura*, i grandi piatti di pesce d’acqua dolce de La Trota* a Rivodutri sono straordinarie rappresentazioni territoriali anche se non possono (forse) essere definiti piatti territoriali in senso stretto, almeno nell’accezione di incontestabilmente tradizionale che il termine evoca.
Sta qui, forse, l’essenza della cucina italiana moderna o almeno una delle sue carte più interessanti. Sta qui la capacità del vino del nostro paese di guardare avanti senza tradire le sue radici.
La rappresentazione territoriale mi piace: è tra le principali caratteristiche che cerco in una bottiglia o in un piatto.