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Elogio dell'imperfezione. E cento…

Dilapido in un lampo i quattro baiocchi che guadagno, dunque non sono catalogabile tra i taccagni. Allora deve essere imputabile ad altro (e qualche sospetto ce l’ho…) la mia incapacità allo spreco di notizie acquistate, fresche o datate che siano.

Per dire, posso comprare un buon numero di bottiglie e dimenticarle in cantina, con la consapevolezza che alcune moriranno prima di essere stappate e che comunque non potrò berle tutte; allo stesso modo di un paio di scarpe o una camicia che non uscirà mai dall’armadio. E magari lasciare un libro a metà.
Non una rivista o un giornale però. Se non sono sicuro di avere il tempo per leggerlo tutto, ma proprio tutto, mi astengo dall’acquisto. E se per sbaglio la frittata è fatta e il giorno passato con due righe non assorbite, conservo i fogli fino al momento buono (per dire, sto ancora finendo di leggere quello della foto in cima anche se non mi pare ci siano notizie particolarmente rilevanti).
Al mio analista, che dice di trovare molte risposte in questo inutile sito, le giuste considerazioni. A me la voglia di trascrivere la prima parte di una articolo di Umberto Eco sull’idea di perfezione nell’arte, apparso sabato 7 luglio su Repubblica e letto or ora…

Di solito l’ imperfezione si definisce rispetto a un genere, un canone, una legge. Guglielmo d’ Alvernia, nel suo Tractatus de bono et malo, riteneva turpe uno che avesse tre occhi o un occhio solo, il primo per avere ciò che disdice, il secondo per non avere ciò che si conviene… Quindi è imperfetto qualcosa che ha troppo o troppo poco rispetto alla norma. Che è poi quello che diceva ancora Leopardi nello Zibaldone: «la perfezione di un essere non è altro che l’ intera conformità colla sua essenza primigenia». Benissimo. Ma è imperfetta la Venere di Milo a cui mancano le braccia, eppure le folle vanno al Louvre per ammirarla (…). Talora celebriamo come seducenti creature affette da strabismo di Venere, nasi come quello di Barbra Streisand, Montaigne celebrava il fascino delle zoppe e troviamo in Tanizachi la lode delle gambe ricurve della donna giapponese. Ma il fascino è fenomeno imprendibile e certamente non ha nulla a che vedere né con la perfezione né con la bellezza. Forse quello che dobbiamo chiarire meglio è il criterio di imperfezione nell’ arte. Dove, tanto per cominciare, almeno ai tempi nostri non possiamo più applicare una norma, altrimenti un volto di Picasso sarebbe imperfetto. È che l’ opera d’ arte pone la norma a se stessa. Quello che cerchiamo nell’ opera d’ arte non è più la rispondenza a un canone del gusto, ma a un criterio che è interno, dove l’ economia e la coerenza formale donano la legge alle proprie parti…
Dunque, secondo l’Umbertone nazionale (che sarà entusiasta del mio sproloquio) “il fascino è fenomeno imprendibile e certamente non ha nulla a che vedere con la perfezione”. Un argomento, mi pare, che riguarda da vicino anche le nostre trascurabili vicende vinose: dall’elogio dell’imperfezione all’accettazione del piccolo difetto che dona personalità, dopo anni di sbornia eno-illuminista e scientista.
Dunque, dove sta il fascino del vino? Nella precisione stilistica e in una certa idea di perfezione o nell’originalità che accetta l’imperfezione come elemento affascinante?
La risposta non arriverà certo dal babbeo sudaticcio che farnetica con un vecchio giornale sotto braccio, deciso solo a consigliare l’articolo di Eco come lettura obbligatoria ai convegni dell’Associazione degli enologi e degli enotecnici, oltre che di appenderlo sotto forma di poster in tutte le sedi Onav della nazione.
In caso ecco qua la versione integrale. Io sono arrivato solo a metà. Grazie a Umbertone sto infatti debellando la mia curiosa patologia…

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