Degustazioni ininterrotte, caldo in una delle città più calde e tipico siparietto di questo periodo quando mi ritrovo a compatire quel tizio grassoccio, gonfio e con le occhiaie tipo panda che vedo passando davanti allo specchio.
Momento ideale, si capisce, per stappare allegramente qualche bottiglia tra amici, quando la temperatura si fa più mite e al calar del sole si scende addirittura sotto i 35°…
Un sollievo che va celebrato, magari con qualcosa di leggero tipo pecora e animelle (i nutrizionisti non raccomandano altro…), sperando inutilmente che gli effetti allucinogeni della solforosa ti diano tregua per qualche ora. E vino, ovviamente, che mai come in questa parte dell’anno è croce (tanta) e delizia, e che ti ritrovi a odiare (spesso) e amare; amare e di nuovo odiare.
Nel valzer degli stati d’animo, che trascendono sovente in più terreni e pericolosi “stati di corpo”, ecco tre bottiglie che aiutano a chiudere bene la giornata, determinanti per prendere sonno felicemente, senza dover per forza contare le pecore (anche perché nel nostro caso erano nel piatto sotto forma di spezzatino).
Pronti via, la bevuta comincia e le bottiglie “bendate” improvvisano la loro sfilata serale.
Al primo bicchiere azzardo un greco di quelli buoni, poi chenin e infine un super generico “sud” della Francia. Acqua, acqua e ancora acqua. Il bianco marino portato dal barbudo della foto (lo riconoscete?), materico e chiarissimo, per certi versi nervoso e maledettamente saporito, senza alcuna sensazione di legno è un Morey – Saint – Denis bianco ‘08 di Dujac. Un gran bel bere e soprattutto un raro esempio di bianco borgognone della Côte de Nuits. Merci Paolo.
Addirittura meglio, almeno sulle prime, di una bottiglia di un certo peso come il Puligny – Montrachet Les Enseigneres di Ramonet ’09. L’annata non facilissima per i bianchi consegna un granello di frutta di troppo, subito abbracciato da un legno bello ma ancora troppo invadente. Un infanticidio, lo so. E poco importa che il vino si schiarisca sempre più e chiuda in crescendo, facendo intravedere quel che sarà. Andava aspettato e basta ma non siamo certo noi i tipi che cedono ai rimpianti.
Nel gioco degli indovinelli va meglio con l’unico rosso della serata. Dico Italia, escludendo di un fiato nord, nebbiolo e sangiovese. La materia, la pienezza e la frutta nonostante i tanti anni di bottiglia (alla fine viene fuori che si tratta di un 1986) fa guardare al centro e al sud, anche se c’è dinamismo, acidità e classe nel bicchiere. Alla fine vado per la Sicilia e Sicilia è: Duca Enrico Salaparuta. Bellissimo, da prendere a prototipo per testare la curva evolutiva di un certo nero d’Avola e affossare in un colpo milioni di luoghi comuni.
Foto: Giuseppe Carrus tramite iPhone