«Gli odori anomali del vino non sono tipicità, sono uguali in tutto il mondo».
Inizia così il testo dell’abstract preparato dal professore-enologo-produttore Luigi Moio per il suo recente intervento al convegno Scienza & Vino, inserito nel programma di Expo Milano. Un documento rilanciato da vari blog nelle ultime settimane e diventato oggetto di discussioni sui social, in qualche caso anche piuttosto accese.
La “notizia” per quanto mi riguarda è proprio questa: nel 2015 può ancora nascere un dibattito così polarizzato da riflessioni che lo stesso autore definisce «semplici e ovvie». Ammetto di non riuscire a capirne fino in fondo le motivazioni, e soprattutto mi domando quanto tempo vada messo in conto per sperare di lasciarci alle spalle certi meccanismi pavloviani. Fateci caso: non c’è praticamente modo di sfuggire ad una rappresentazione schierata ogni volta che si abbinano al vino parole come naturale, industriale, artigiano, lieviti, difetti, legno, e compagnia cantando. Un impasse ormai secolare, che finisce per sminuzzare, parcellizzare, segmentare ulteriormente un comparto già di per sé ultra polverizzato sul piano produttivo e commerciale.
Ma c’è anche un altro modo di vedere la cosa, meno pessimistico. Alle scuole elementari ci hanno insegnato che il Medioevo è finito il giorno in cui Cristoforo Colombo ha messo piede nel Nuovo Mondo, il 12 ottobre del 1492. Continuando a studiare e ad approfondire abbiamo poi scoperto che l’Età Moderna non sarebbe mai iniziata davvero senza un mucchio di altre cose, tra cui l’Umanesimo, l’ideazione della stampa a caratteri mobili e la diffusione delle riforme protestanti. Dietro l’apparente immobilismo suggerito dai continui déjà-vu, a me sembra che il mondo del vino italiano stia vivendo – nel bene e nel male – una fase di transizione molto simile a quella, così tumultuosa, concentratasi tra la seconda metà del ‘400 e la prima del ‘500.
Non c’è bisogno di ricordare quello che è accaduto dopo lo scandalo del metanolo nel 1986, ancora oggi evocato simbolicamente come una sorta di anno zero per la vitienologia del bel paese. Il settore è letteralmente esploso e la “crisi” di oggi è a mio avviso percepita più grave di quel che è, anche alla luce del lungo periodo di vacche grasse seguito al “Rinascimento” imprenditoriale, giunto al suo apice a cavallo dei due millenni. Così come possiamo forse dare per acquisite un bel po’ di analisi relative allo sviluppo dei nuovi media, i cui effetti individuali e sociali non sono da considerare meno radicali di quelli attribuiti all’invenzione di Gutenberg. Strumenti che hanno consentito di moltiplicare esponenzialmente le opportunità di informarsi e confrontarsi anche sulle questioni vinose, facendo saltare buona parte degli steccati che prima separavano vigneron e consumatori, critici ed operatori.
Credo servirà un po’ più di tempo, invece, per elaborare un modello interpretativo condiviso dei cambiamenti in corso nella “dottrina” enoica. Dinamiche che assomigliano tremendamente a quelle che rivoltarono e cambiarono per sempre l’Europa, dopo che un monaco agostiniano di stanza a Wittenberg decise di divulgare le sue “95 tesi sulla dichiarazione del potere delle indulgenze” (link). Dite che sto esagerando? Concedetemi allora un bonus di attenzione: prometto di essere il più schematico e sintetico possibile (ehi tu, lo vedo che ti stai scompisciando!)
Riforma…
Non è difficile capire perché le idee di Martin Lutero si diffusero tanto rapidamente nel Nord Europa. Se le questioni teologico-filosofiche potevano interessare una ristretta cerchia di studiosi, il suo pensiero suggeriva connessioni molto concrete nella vita quotidiana di tante persone. In particolare quelle legate al concetto di “disintermediazione”: secondo il monaco tedesco esiste un legame diretto ed autosufficiente tra Dio e l’uomo-donna, che non richiede tutoraggi esterni di alcun tipo. Provando a semplificare, ci si salva per sola fede e non attraverso le buone azioni, che sono semmai una conseguenza dello stato di grazia, concesso dall’Altissimo senza alcun merito da parte dell’uomo, se non quello di raccoglierlo ed onorarlo. Viene così totalmente ribaltata la prospettiva della dottrina cattolica “classica”, che considera le opere pie e i comportamenti “giusti” come strumenti per aspirare al perdono e alla giustificazione celeste.
Una disintermediazione “etica”, che fa il paio con quella spirituale e liturgica: nella visione luterana ogni individuo, illuminato da Dio, può sviluppare una conoscenza completa ed esatta delle Sacre Scritture. Risulta allora del tutto infondato il potere esclusivo di intercessione ed interpretazione che le gerarchie ecclesiastiche si auto attribuiscono. Non solo, perché uno dei punti cardine della Riforma diventa proprio la libertà dei fedeli, e perfino il dovere, di studiare la Bibbia in prima persona. Un’opzione fino ad allora negata e resa concreta dal potenziamento dell’invenzione di Gutenberg, nonché dalla diffusione di edizioni tradotte in un linguaggio comprensibile per il popolo.
Traiettorie palesatesi nelle faccende bacchiche dell’ultimo trentennio in modo del tutto sovrapponibile. In primo luogo si è progressivamente ingrossata la quota di fedeli-bevitori che reclamano un rapporto più indipendente ed intimo con l’oggetto della propria passione. Ma soprattutto si è generato un movimento “dal basso” che ha messo fortemente in discussione buona parte dei parametri tecnici, espressivi ed estetici, fino ad allora considerati irrinunciabili per un vino di qualità. Le implicazioni sono sotto gli occhi di tutti, nella filiera produttiva come nei comportamenti di consumo o nella rappresentazione delle graduatorie aziendali, territoriali e stilistiche.
…e Controriforma
Se è vero che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, è nell’ordine naturale delle cose che questa sorta di “luteranesimo enoico” si trovi oggi a fare i conti con una risposta di sistema di stampo “controriformista”. Da una parte la globalizzazione dei mercati e delle reti ha allargato a dismisura i canali di approvvigionamento e le modalità di accesso alle fonti, ridimensionando a poco a poco il peso di quelle che precedentemente erano figure centrali nella mediazione commerciale e comunicativa. Dall’altra il rimescolamento delle carte rende sempre più urgente una replica organizzata, capace di fornire argomentazioni solide ai tanti appassionati e operatori, ma anche agli stessi produttori, che si trovano a dir poco disorientati in questa fase. C’è bisogno di “certezze”, è fisiologico, nel momento in cui su ogni questione sembra valere improvvisamente tutto e il contrario di tutto.
Sono due esigenze molto diverse, insomma, a tenere insieme la comunità dei “papisti”. Le eresie enoiche vanno combattute con un Concilio di Trento permanente, chiamato ad esprimersi sui nodi più dibattuti in primo luogo con le armi della scienza e della tecnica. Professori, ricercatori, enologi di grido, giornalisti della vecchia guardia: tutti uniti per provare ad arginare un flusso informativo che si alimenta su sentieri inediti, disegnati dall’esperienza empirica e dalla sensibilità individuale più che dai numeri, i dati, le documentazioni. Tutto giusto, se non fosse che in questo tipo di reazione si nasconde spesso un atteggiamento furiosamente “dogmatico”. Le leggi della chimica e dell’economia hanno già in sé la soluzione ad ogni contesa, ribadiscono sempre più apertamente i controriformatori. Il vino naturale non esiste, l’agricoltura biologica non è sostenibile su larga scala, il difetto è il difetto, il piccolo è troppo piccolo per reggere all’urto della globalizzazione: le cose stanno così e chi sostiene il contrario è un povero mentecatto che non ha nemmeno i titoli per esprimersi.
A me pare che questo scientismo metodologico rappresenti solo il rovescio di una stessa medaglia, una reazione non meno polarizzata rispetto a quella che i protestanti cercano nelle pieghe del pensiero filosofico ed esoterico applicato al vino. Non è un fenomeno soltanto italiano, si badi bene, ma è sicuramente nel Bel Paese che si sta maggiormente allargando la forbice tra le ragioni di chi fa il vino e di chi lo beve. Penso soprattutto alla figura dell’enologo consulente, passato rapidamente nell’immaginario collettivo da star a quasi reietto, da stilista a manipolatore, da protagonista decisivo per il successo di un’azienda a principale responsabile delle derive omologanti.
Un ribaltamento di prospettiva che pesa soprattutto sulle ultime generazioni di tecnici, formatisi in una fase totalmente diversa e costretti a ripensare profondamente il loro ruolo nella filiera, e relative aspirazioni di carriera. Le eccezioni naturalmente non mancano, ma la chiusura corporativa prevale in tutta evidenza sulle aperture di quei professionisti-bevitori più vicini alle nuove tendenze produttive ed interpretative.
E poi arrivarono gli Anabattisti…
Come sappiamo, la Riforma Protestante generò numerose ramificazioni, alcune delle quali furono combattute con egual determinazione sia dai luterani che dai cattolici. Tra i movimenti eretici che più crearono scompiglio nell’Europa centrale del primo ‘500, vale sicuramente la pena di ricordare quello passato alla storia come “anabattismo”. I seguaci non si definirono mai così in realtà: il termine fu coniato dai loro nemici con intento mistificante, giacché i credenti ritenevano nullo il battesimo dei neonati, ricevuto per volontà altrui.
Senza entrare nei dettagli, i “fratelli in Cristo” (come si chiamavano tra loro) si basavano su alcuni concetti centrali della dottrina luterana, ulteriormente radicalizzati in quella che si proponeva a tutti gli effetti come una visione alternativa della società contemporanea. Non c’è bisogno di essere dei luminari per comprendere quanto potesse suonare destabilizzante per l’epoca una religione che predicava, fra le varie cose, la totale separazione fra stato e chiesa, intesa oltretutto come comunità locale tra eguali. Oppure il rifiuto di assumere cariche politiche, il rifiuto di ogni tipo di violenza, il rifiuto delle gerarchie ecclesiali e di ogni teologia, liturgia e gestione del culto. Come nel luteranesimo la giustificazione avviene per sola fede, ma il dono dello Spirito che si riceve col nuovo Battesimo consapevole impone una condotta di vita ispirata all’imitazione di Cristo.
Gli anabattisti furono violentemente perseguitati fin da subito, con oltre 2.000 esecuzioni tra il 1525 e il 1529. Le loro congregazioni tendevano a distinguersi dal mondo, percepito come corrotto e corruttore, ma erano soprattutto le implicazioni politiche di quel sistema religioso ad allarmare trasversalmente l’Impero, la nascente chiesa luterana e la curia romana. Fu infatti un esponente di spicco del movimento, Thomas Müntzer, ad ispirare alcune delle cosiddette “rivolte contadine”, che misero a ferro e fuoco la Germania per tutta la prima metà del ‘500. Al grido di «omnia sunt communia» (tutto è di tutti) si riunì un vero e proprio esercito irregolare di braccianti, coloni, servi della gleba che chiedevano l’abolizione definitiva dei privilegi feudali. In altre parole: drastica riduzione delle tasse, legalizzazione di diritti comuni in tema di pascoli, caccia, pesca, sfruttamento dei boschi, e così via. L’insurrezione si concluse con il massacro di Frankenhausen, quando in poche ore vennero trucidati oltre 5.000 contadini. Lo stesso Müntzer fu catturato, torturato e successivamente decapitato.
Ci vollero comunque anni prima che i seguaci del “nuovo battesimo” venissero pienamente marginalizzati. La frangia più estrema si riorganizzò attorno alle figure di Jan Beukels alias Johan Bockelson (meglio conosciuto come Giovanni di Leida) e Jan Matthys, arrivando a prendere con la forza il controllo della città libera di Münster, nell’inverno del 1534. La città-stato anabattista fu ribattezzata “Nuova Sion” e i borghigiani luterani e cattolici che rifiutarono di convertirsi vennero depredati di ogni bene (case comprese) ed espulsi.
La risposta del principe-vescovo della regione, Franz Von Waldeck, non si fece attendere e Münster rimase sotto assedio per oltre un anno, presa in trappola da un esercito di quasi tremila lanzichenecchi. Ma la resa militare fu solo una conseguenza del regime di terrore millenaristico imposto dai capi della rivolta: venne proclamata la totale comunione dei beni (era proibita perfino la chiusura delle porte delle case) e l’abolizione del denaro, ogni libro venne bruciato ad eccezione della Bibbia e la situazione precipitò ulteriormente con l’istituzione di una poligamia forzata, che prevedeva la pena di morte nel caso di rifiuto della donna o di tentativo di protezione da parte di un uomo. Lo stesso Jan di Leida, autonominatosi Re Davide dopo la morte di Matthys, prese con sé 16 mogli, trucidando quelle che non vollero aggiungersi all’harem. Inutile dire come si concluse l’esperienza del cosiddetto “regno di Münster”: leggenda vuole che fu proprio un cittadino ad aprire le porte alle truppe assedianti, il gesto disperato di una popolazione allo stremo, che non riuscì comunque ad evitare l’indiscriminata rappresaglia dei vescovili.
Ora, non so voi ma a me pare che ci siano diversi punti di contatto tra le vicende dell’anabattismo e le posizioni che si manifestano nell’ala più radicale dello schieramento enoico. Per capirci, quella che arriva addirittura a considerare illegittima la definizione di “vino” per liquidi che non corrispondono a determinate caratteristiche produttive ed organolettiche. Provando a sintetizzare: controllo dell’intero processo da parte del vignaiolo, conduzione viticola rispettosa della terra e dell’ambiente, protocolli di cantina ispirati a tecniche ancestrali. Tutto il resto è industria, confezione, omologazione, che richiede una narrazione a sé stante e, per i più estremisti, non merita neanche di essere bevuto. Una visione che rivoluziona l’approccio classico alla bottiglia: il suo valore è dato non tanto dalla qualità espressiva che si manifesta nel bicchiere, quanto dalla filosofia che c’è dietro, dall’etica di chi la produce, dall’originalità interpretativa, dalle politiche di prezzo e molti altri fattori socio-culturali, più che strettamente tecnici.
Così come i “fratelli in Cristo” invocavano un ritorno alla chiesa delle origini, gli anabattisti del vino reclamano il recupero di una viti-enologia per molti versi pre-moderna. L’unica possibile, secondo il loro punto di vista, per rispettare e conservare l’identità più autentica della bevanda di Bacco, che sa parlare direttamente al cuore del fedele-appassionato, senza bisogno di etichette formali, giornalistiche o valutative. Un altro comun denominatore è ravvisabile, infatti, nel rifiuto delle gerarchie e dell’ortodossia liturgica, se così si può dire: nessuna commissione d’assaggio di tecnici o critici può proporre le proprie impressioni come verità assolute. Ma soprattutto vengono messi totalmente in discussione gli stessi parametri organolettici che nell’approccio classico definiscono con un certo rigore, per esempio, se un vino può essere considerato “corretto”, o meno. Nel senso di corrispondente a criteri di correttezza analitico-espressiva, meglio specificare. Riduzioni, ossidazioni, sensazioni riconducibili all’acidità volatile o alla presenza del lievito brettanomyces diventano marcatori da non bocciare necessariamente a priori. E non può suonare che blasfema un’idea del genere per i più agguerriti sostenitori della contro-riforma, ma anche per una quota non proprio marginale di “luterani” enoici.
E’ una frattura sempre più ampia ed evidente, quella che sta separando i gruppi di appassionati più radicali da tutti gli altri. La loro Münster è stata edificata dalla fitta rete di fiere di eventi dedicati al vino “naturale”, così come dalla filosofia che ispira le scelte di enoteche, ristoranti, winebar totalmente consacrati all’universo bio. Ma è una fortezza che rischia continuamente di perdere pezzi per effetto delle mille divisioni interne, delle incongruenze svelate ogni qual volta si cerca di pervenire ad una definizione credibile di ciò che è vino “vero” e ciò che non lo è. A maggior ragione quando le figure più carismatiche non nascondono di percepirsi come dei veri e propri “illuminati”, chiamati in qualche modo ad aprire gli occhi al prossimo. Gli antagonismi si esasperano, i toni del confronto si fanno via via più aggressivi, ma alla fine sembra star bene a tutti, come in un gioco delle parti, una cittadella anarchica progressivamente trasformatasi in riserva indiana.
…ma nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola
E noi? Chi siamo noi? E dove ci collochiamo in questo marasma, ideologico e non solo?
Sinceramente non so rispondere, non in maniera secca perlomeno. So però che cosa vuol dire evitare di schierarsi nel mondo del vino italiano di oggi. Provando magari a spiegare che per noi “bere bene” può significare cose molto diverse in base al punto di osservazione e che le variabili in campo sono troppe per poterle codificare in un sistema teorico. Noi siamo quelli che, banalmente, si attendono da ogni bottiglia il massimo godimento fisico, cerebrale, gastronomico, culturale e goliardico possibile. Disposti per questo a tirare la cinghia su mille altre cose, a rinunciare alle ferie per un giro di cantine o una degustazione importante, ad indossare gli stessi jeans fino alla loro completa distruzione, a smanettare su rojadirecta per reinvestire la quota dell’abbonamento Sky in qualche boccia come si deve. Troppo ingolfati di impegni e troppo precari per fissare dei paletti preventivi su ciò che merita di essere conosciuto e verificato. E allo stesso tempo troppo fedeli alla propria passione per ignorare le lezioni imparate a nostre spese, per esempio che i vini buoni – quelli buoni per davvero – non nascono per miracolo dappertutto e non te li regala nessuno.
No, decisamente non è premiante in questa fase, il laicismo enoico. Mal tollerati dai militanti più radicali per la nostra presunta ignavia, per quell’indole insopportabilmente democristiana che non esclude a priori di poter amare un liquido originato da viticoltura convenzionale, varietà internazionali, fermentazioni con lieviti selezionati e mille altre diavolerie di cantina assortite. Ma invisi, per ragioni opposte, anche ai più motivati esponenti della contro-riforma, perché il nostro approccio non è sufficientemente selettivo da un punto di vista grammaticale. E soprattutto perché nessuno ci convincerà mai che l’anima di un grande vino è sintetizzabile in una scheda analitica o in un diagramma matematico.
Nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola, recitava un celebre sketch dei Monty Python, e dietro al tormentone comico si nasconde una grande verità. Quando i centri di potere decidono che è il momento di reagire, non si va tanto per il sottile con le istruttorie, che siano eretici dichiarati o semplicemente persone che si fanno qualche domanda. La contro-riforma non avrebbe ottenuto i suoi indiscutibili risultati senza il braccio armato del Sant’Uffizio, e relativo “lavoro di intelligence”, come si direbbe oggi. E poco importa se tra gli effetti collaterali ci sono centinaia di migliaia di europei finiti sul rogo. Molti dei quali del tutto estranei alle imputazioni di carattere religioso, ma sacrificati e sacrificabili per il loro rifiuto di allinearsi alle esigenze dello status quo, politico, economico o sociale.
Non pensiate di essere al sicuro, insomma, cari fratelli agnostici. Gli anabattisti rompono indubbiamente le scatole ai Carafa di oggi (link), ma nel lungo periodo preoccupa maggiormente il rafforzamento di una comunità di bevitori-appassionati libera da ogni dogmatismo. Che non ha bisogno di arrivare alle cesure manichee delle frange più radicali per mettere definitivamente in discussione l’approccio pseudo-oggettivista dominante negli ultimi trent’anni. Approfondendo la conoscenza dei vini e dei territori, ci si rende conto prima o poi che la lente tecnica è largamente insufficiente per illuminare un qualcosa che fondamentalmente non può essere scomposto e sezionato.
L’era moderna è destinata a cominciare davvero solo quando il vino sarà finalmente riconosciuto come manifattura da vivere nel suo insieme. Che significa, almeno per me, non scartare a priori nessuna forma produttiva ed espressiva se il quadro complessivo funziona e racconta una storia, mentre la bottiglia viene svuotata. Mi importa zero fissare i paletti del difetto, lo so da me che troppo sale rovina un piatto, ma so anche che può essere un ingrediente virtuoso quando è in armonia con le altre componenti. Perché dovrebbe funzionare diversamente con un tocco di brettanomyces, che in certe birre è addirittura considerato elemento costitutivo? Oppure con una leggera riduzione, una velatura ossidativa, un’acidità un po’ anarchica? Per la stessa logica bisognerebbe immediatamente abbattere la storta torre di Pisa e costruire al suo posto un bel centro commerciale…
Ovviamente non hanno tutti i torti quelli che da tempo denunciano i rischi da sdoganamento indiscriminato di qualsiasi interpretazione in nome della “naturalità”. Ho sempre pensato, infatti, che le deviazioni dai percorsi abituali se le possano permettere solo coloro che l’ortodossia la conoscono nel profondo e la sanno maneggiare ad alti livelli. In altre parole: Picasso non aveva minor talento pittorico di un Botticelli e il suo cubismo non ha certo preso forma come la supercazzola di uno che la voleva buttare in caciara. O, se preferite, diciamo che sono ragionevolmente sicuro che il buon Ferran Adrià potrebbe cucinarvi il miglior spaghetto al pomodoro della vostra vita, se volesse. Senza basi solide non ci sono alibi creativi che tengano, insomma, e su questo punto mi sento un po’ contro riformatore anch’io, lo confesso.
Eppure faccio veramente fatica a considerare credibile chi, leggi alcune commissioni di assaggio per l’attribuzione delle Dop, decide di bocciare un vino per una volatile alta o una coda fermentativa e poi certifica la legittimità di robaccia assemblata con uve non consentite o sfusi provenienti da altri territori. Così come trovo perlomeno contraddittorio l’accanimento su certe sgrammaticature, a cui non fa da contraltare una pari capacità nel riconoscere quelli che sono solo difetti di segno opposto, altrettanto limitanti per la qualità del prodotto. Sono liquidi mediocri, siamo tutti d’accordo, quelli che mettono davanti quasi come unico valore la loro presunta genuinità, perdendo per strada ogni coerenza varietale o territoriale. Ma lo sono anche quelli dominati da lieviti che sanno di Vetril, dolciastri e appiccicosi, ibernati nella dinamica, prosciugati da estrazioni e affinamenti un tanto al chilo, elefantiaci nella beva. Resta inspiegabile per me come bottiglie di questo tipo possano essere considerate più “corrette tecnicamente” rispetto ai consueti bersagli del mondo natural, ed è chiaro che un compromesso ideologico tra posizioni così distanti non è in ultima analisi possibile.
Sono sopravvissuto, e anche piuttosto bene direi, a parecchi vini che la crema controriformista lavandinerebbe dopo la prima snasata, o forse al primo sguardo. Non sono invece sopravvissuto, bevitoriamente parlando, a innumerevoli bicchieri da loro plasmati e magari indicati come riferimento di alta enologia. Magari bastasse diventare un grande scienziato, professore o ricercatore per essere automaticamente anche un grande interprete: non credo di essere l’unico ad aver goduto suinamente con vini realizzati da contadini con la terza media, che ti guardano come un marziano se dici “tiolo” e non hanno idea di cosa sia un corso per sommelier. Mi sembra la più banale delle banalità, e invece sottolinearlo in certi ambienti fa ancora l’effetto di una scandalosa eresia.
Ci vuole molta fantasia per trovare un lieto fine a questa oceanica digressione, me ne rendo conto. Ma l’ho detto in apertura e lo ripeto: senza scomodare Marx e Weber, dove non c’è “conflitto” non può esserci cambiamento. E sono convinto che questa fase sia assolutamente salutare, pur nelle sgradevoli implicazioni che le forti polarizzazioni comportano. Nonostante tutto, credo che un futuro radioso sia lì ad attendere il sistema vitienologico italiano, ma c’è bisogno del contributo di tutti in una prospettiva autenticamente orizzontale. Non è il sole che gira intorno alla terra, Colombo ce l’ha definitivamente confermato * e di terre vergini da conquistare ce ne sono ancora un’infinità: addio Medioevo, è stato bello finché sei durato, ma adesso è il momento di scrivere un’altra storia.
Ps la colpa di questo inutile post è tutta da attribuire agli amici Vittorio, Luca, Matteo, Fabrizio, Dante, Daniele, Giovanni e Pierpaolo, che mi hanno consigliato e poi regalato (grazie Farakkia!) il romanzo storico Q, del collettivo Luther Blissett (poi ribattezzato Wu Ming). Un libro fantasticamente attuale, assolutamente da leggere.
Fine ‘400, quasi 1.500 – Il vino italiano tra Medioevo ed Età Moderna – Scarica la Versione pdf
* come giustamente sottolineato da Luca Fasolo su facebook, la teoria eliocentrista copernicana era già stata diffusamente accettata negli anni in cui Cristoforo Colombo partì per la sua spedizione. Quello che intendevo dire, con resa imprecisa, è che il navigatore genovese fu il testimone più importante della nuova scoperta, nel momento in cui dichiarò l’intenzione di raggiungere le Indie navigando verso ovest.
molto, molto bello: i miei complimenti!
[…] e culturale al limite del religioso (Leggere qui lo studio approfondito del prof. De Cristofaro: FINE ‘400, QUASI 1.500: IL VINO ITALIANO TRA MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA). Rimedi: piazzargli alla cieca un vino che rientra negli infiniti gradi di libertà tra solouva e […]
Bellissimo approfondimento, Paolo. E’ un piacere leggerti. Saluti da un enolaico.
Belle riflessioni, sicuramente food for thought. Io sono convinto che la viticoltura convenzionale e quella naturale (non quella talebana esasperata, a sua volta ottusa tanto quanto quella super convenzionale) possano convivere tranquillamente, servendo due platee diverse: la prima i consumatori più superficiali, la seconda i consumatori più esigenti. Hai ragione a scrivere: “nel lungo periodo preoccupa maggiormente il rafforzamento di una comunità di bevitori-appassionati libera da ogni dogmatismo. Che non ha bisogno di arrivare alle cesure manichee delle frange più radicali per mettere definitivamente in discussione l’approccio pseudo-oggettivista dominante negli ultimi trent’anni”. Quando quelle persone che oggi spendono centinaia di euro per bere male, influenzate dalla narrativa oggettivista, si accorgeranno dei reali valori in campo, spenderanno quei soldi per comprare altre bottiglie, oggi valutate a torto come anarchiche. Non è una questione di “se” tutto questo succederà, ma di “quando”. Allora il prezzo di queste bottiglie salirà a dismisura, premiando i bravi produttori (ne ho in mente diversi, ma ciascuno può inserire qui i suoi preferiti) e si inizierà a distinguere tra cialtroni improvvisati e veri artisti-artigiani del vino. Purtroppo, per noi comuni mortali, talune bottiglie che oggi ci possiamo permettere saranno off-limits: non basterà rinunciare a Sky o tenere gli stessi jeans un anno in più. Ma molti produttori si convertiranno, si allargherà l’offerta ed in generale la quaità aumenterà. Nuovi emergenti, che ci metteranno un po’ a venire scoperti, ci permetteranno di continuare a bere bene lo stesso. Io credo che succederà qualcosa del genere.
Hermann, ma lei dove si è nascosto in tutti questi anni? La lucida e serena ragionevolezza che vibra nel suo commento è per quanto mi riguarda commovente. Vorrei fisicamente abbracciarla, senza secondi fini di sorta. Grazie!